CRONISTORIA DI UNA BUFALA: IL FALSO PIANCA ED IL VERO ZUCCARELLI

Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702-Firenze, 1788) Paesaggio con ponte, figure e statua

Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702-Firenze, 1788) Paesaggio con ponte, figure e statua

“Soltanto chi non fa nulla non sbaglia mai”.

E’ un proverbio conosciuto e, come tutti i proverbi, racchiude una verità talmente palese da sembrare quasi oziosa. Eppure ci sono contingenze in cui sarebbe opportuno prediligere l’immobilità all’azione, la prudenza rispetto al coraggio.

Ho deciso di adottarlo come premessa ad un intervento necessario, non tanto perché mi coinvolge in prima persona, ma perché ripropone un pericoloso tranello in cui molti collezionisti ed appassionati rischiano d’imbattersi quando si rivolgono alla storia dell’arte.

A differenza delle cosiddette “scienze esatte”, tale disciplina spesso fluttua in una sorta di territorio dell’opinione di questo o di quell’altro esperto, come se si trattasse di un chiacchiericcio tra comari, ciascuna delle quali racconta la propria versione rispetto ad un fatto cui ha assistito. Ne nasceranno diverse versioni, ciascuna delle quali riflette il punto di vista di una precisa coscienza.

In un simile contesto va inserita la scheda di catalogo relativa al Paesaggio con ponte, figure e statua, pubblicata dalla sottoscritta come opera di Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702-Firenze, 1788) ed inserita nella monografia sull’artista (2007, cat.410), accompagnata da un’approfondita disamina che ne motivava la paternità e la cronologia. Finalmente un dipinto di eccellente livello, passato in asta con la dubitativa attribuzione ad Antonio Diziani (Venezia, 1737-1797 ) e la modesta stima di 25.000 dollari (Koller, Zurigo), trovava la giusta classificazione critica, determinando quotazioni assai più elevate ( 200.000-250.000 euro presso Dorotheum ) proprio alla luce di quanto le considerazioni di chi scrive avevano evidenziato.

Siffatte considerazioni, giova ribadirlo, erano la risultanza di precisi parametri di natura stilistica e formale, cui si aggiungono suggestioni culturali e peculiari caratteri-guida riferibili ad uno specifico autore, che, se scomposti con criterio filologico, assumono la stessa fisionomia di un’equazione di cui la nostra opera rappresenta il risultato e gli elementi descritti le cifre ed i simboli numerici.

Purtroppo le opere non hanno la chiarezza dei numeri, quindi necessitano di grande esperienza rispetto agli strumenti espressivi, al territorio d’appartenenza, alle circostanze storiche da cui discendono…proprio per questo chi lavora in tale settore di studi viene definito specialista.

E qui sopraggiunge il chiacchiericcio tra comari di cui sopra.

Poco tempo fa, infatti, mi è capitato d’imbattermi nel catalogo di un pittore della Valsesia, Giuseppe Antonio Pianca ( Agnona, 1703-Milano, 1760), redatto da Filippo Maria Ferro , di recente pubblicazione (2013). Al suo interno, tra i dipinti riferiti all’artefice, ho trovato una lunga citazione tratta dal mio volume su Zuccarelli, in cui si riportava l’intera scheda di catalogo del dipinto citato (cat.136), che l’autore usava strumentalmente alla sua tesi, ovvero che l’opera in questione fosse di Pianca.

Dopo aver riportato il mio scritto parola per parola, e avere specificato che il paesaggio era già stato pubblicato da me come autografo del “bellunese” Francesco Zuccarelli, lo studioso concludeva dicendo che “la sensibile analisi della Spadotto ben si addice alla personalità del Pianca”.

A parte il fatto che Francesco Zuccarelli, chiamato il Pitiglianese, è toscano;

A parte il fatto che trovo assai singolare usare le parole altrui, riferite a tutt’altro artista ed a tutt’altro contesto, per ribadire una propria tesi;

A parte il fatto che Ferro non ha speso alcuna parola sullo stile del povero Pianca per illuminare chi legge sulla presunta, reale, autografia dell’opera smentendo quanto ampiamente argomentato da me;

Mi chiedo: con quale perversione questo personaggio ha potuto pubblicare un macro dettaglio che evidenzia in modo inequivocabile il bolo d’Armenia della preparazione, tipico delle tele imprimide veneziane ( tav. XCIX )?

Proprio per siffatta, sperticata caratteristica “fisiologica” il nostro paesaggio era stato correttamente riferito già in tempi non sospetti ad un artista della Laguna (Antonio Diziani, appunto) ed evidenziato con una sorta di masochismo visivo dal Ferro, ma non voglio infierire su una situazione già molto penosa.

Capisco il compiacimento di arricchire il più possibile un corpus, ma ciò non deve avvenire a scapito delle regole basilari per la lettura di un dipinto, regole note agli studenti delle scuole superiori, ingenerando in chi legge il sospetto che la storia dell’arte sia ben lungi da ciò che dovrebbe essere, ovvero una disciplina rigorosa, cui approcciarsi con il massimo rispetto.

Nei miei scritti spero di avere dimostrato un concetto fondamentale che governa questa straordinaria arte visiva chiamata pittura, ovvero che gli artisti parlano al proprio pubblico attraverso le opere, utilizzando un preciso, personale codice. Tale codice può presentarsi in modo più o meno diretto, più o meno eloquente, spesso con diversa efficacia, non lo posso negare. Ma leggerlo, comprenderlo, spiegarlo a quanti confidano nel lavoro degli esperti spetta solo a questi ultimi ed alla loro coscienza.

Quanto al resto, ovvero le funamboliche attribuzioni di Filippo Maria Ferro, lo affidiamo ad un altro proverbio… SIC TRANSIT GLORIA MUNDI.

STORIA DI UN EMIGRANTE ILLUSTRE: LO STRANO CASO DI ANTONIO CANAL DETTO IL CANALETTO

storia-di-un-emigrante-illustrePer quanto Oscar Wilde affermasse che non esistono geni incompresi, la storia dell’arte è disseminata di grandi artisti morti in miseria perché rifiutati dal proprio tempo.

L’immagine di Van Gogh che barattava un suo dipinto per un piatto di minestra rappresenta senza dubbio un’icona in tal senso, soprattutto alla luce del successo planetario che lo avrebbe atteso dopo la morte.

Eppure, c’è forse un caso ancora più strano ma allo stesso tempo poco conosciuto, che riguarda il maggior vedutista veneziano del XVIII secolo: Antonio Canal detto il Canaletto (1697-1768).

A differenza del grande maestro olandese, il suo genio era tutt’altro che incompreso: osannato, rincorso, circondato da clienti internazionali disposti a pagare qualsiasi prezzo per un suo dipinto ed attendere addirittura degli anni pur di poterlo sfoggiare nella propria dimora, l’artefice di quello che si può a buon diritto definire l’oggetto del desiderio del Grand Tour versava in una situazione economica rasente l’indigenza.

Dalle carte d’archivio inerenti i suoi beni, il Canaletto possedeva un “patrimonio” di soli 40 ducati, composto da un letto, pochissima biancheria malconcia, una scatola d’argento, quattro posate e tre anelli.

Eppure, l’avarizia dell’artista è ben nota ed esasperata a tal punto da indossare sempre il medesimo, sudicio tabarro e rinunciare a qualsiasi prospettiva di matrimonio pur di non avere alcuna persona a carico.

La controversa vicenda assume i risvolti di una storia di ordinario sfruttamento, in cui ancora oggi siamo abituati ad imbatterci, sebbene al posto di umile manovalanza sottopagata ci si trovi di fronte alla primadonna del palcoscenico artistico lagunare, praticamente sottomessa ad uno scaltro mercante inglese di stanza a Venezia, Joseph Smith (1682-1770).

Quest’ultimo, giunto nella città di San Marco all’aprirsi del XVIII secolo, aveva monopolizzato il florido mercato straniero, costituito per la maggior parte da britannici alla ricerca di souvenirs della loro meta italiana prediletta, stipulando con il Canal una sorta di accordo commerciale in esclusiva.

In tal modo, l’artista s’impegnava a lavorare per un certo numero di anni al soldo dell’affarista, che si tratteneva la maggior parte dei guadagni lasciando al “povero” (nel vero senso della parola) Antonio solo gli spiccioli, inquadrato in una sorta di vera e propria sudditanza che si interromperà solo quando il grande maestro deciderà di andare egli stesso a procacciarsi i clienti direttamente a Londra.

Il mercato a Venezia era ormai monopolio dei poteri forti, dove il talento s’inquadrava nelle rigide leggi di mercato, al punto che, in assenza di Antonio, il suo pennello veniva sostituito da un copista incaricato dallo Smith di creare dipinti “alla maniera di Canaletto” per la sua clientela d’oltremanica.

Contemporaneamente, proprio nella medesima Inghilterra, l’artista per cui i ricchi gentiluomini locali giungevano in Laguna, doveva farsi pubblicità sui giornali locali per procacciarsi commesse dirette.

In realtà l’apparente paradosso si spiega nel fatto che lo Smith rappresentava un vero e proprio punto di riferimento per i committenti, travalicando addirittura il soggetto creativo in una concezione dell’opera d’arte assolutamente estranea all’attuale senso comune.

Nella sensibilità del XVIII secolo, infatti, Antonio non veniva considerato nella sua unicità di artista, quanto piuttosto come formalizzatore di una maniera che poteva essere perfettamente riprodotta da altri artisti innumerevoli volte.

L’originalità era del tutto ignota come valore fondante l’opera d’arte, al punto che i clienti dello Smith sceglievano il soggetto che più gli aggradava da un album di incisioni canalettiane -pubblicato a tale scopo dal mercante- , alla stregua di un book fotografico da riprodurre fedelmente.

Solo alla luce di ciò possiamo comprendere come lo scaltro affarista avesse attutito senza troppa fatica la perdita del suo protetto, ed il povero emigrante Canaletto faticasse a trovare il proprio ubi consistam nella sua terra d’elezione.